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40+ Werke 214 Mitglieder 6 Rezensionen

Über den Autor

Beinhaltet den Namen: G. Luigi Beccaria

Werke von Gian Luigi Beccaria

Italiano: antico e nuovo (1988) 18 Exemplare
L'italiano in 100 parole (2014) 5 Exemplare
I linguaggi settoriali in Italia — Herausgeber — 4 Exemplare
I "mestieri" di Primo Levi (2020) 4 Exemplare
Letteratura e dialetto (1975) 4 Exemplare
Le forme della lontananza (1989) 2 Exemplare
Sanguineti astrale 1 Exemplar
Fiabe piemontesi (1982) 1 Exemplar

Zugehörige Werke

Junger Mond (1949) — Einführung, einige Ausgaben1,406 Exemplare
Opera critica (2014) — Einführung — 5 Exemplare

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Wissenswertes

Geburtstag
1936-01-27
Geschlecht
male
Nationalität
Italy
Wohnorte
Turin, Italy
Berufe
Professor
Organisationen
University of Turin, Italy
Kurzbiographie
http://it.wikipedia.org/wiki/Gian_Lui...

Mitglieder

Rezensionen

Io scrivo per capire quello che penso. Non so mai quello che mi passa per la mente. L'autore di questo libro la pensa diversamente ...

"Ci sono ragioni imperiose che spingono a scrivere? Perché si scrive e per chi? Sono le domande di sempre. Sartre le pose in un suo libro famoso, e sono state di tanto in tanto riprese. Per chi si scrive... Non è detto che allo scrittore interessi in prima istanza rivolgersi a qualcuno o farsi capire dai piú. Anzi, qualche autore trova «inebriante» che la stragrande maggioranza rimanga estranea ai testi che lui produce (e questo «conferisce una certa libertà», confessava in una recente intervista Philip Roth. E in altra occasione: «Quando lavoro non ho in mente un particolare gruppo di persone con cui voglio comunicare»). La preoccupazione principale dello scrittore resta piuttosto il come scrivere. Non basta avere un foglio bianco, una biro, una tastiera, e cominciare. Il mestiere di scrivere è arduo, per di più faticoso. Dice Pamuk: «Il segreto dello scrittore non sta nell'ispirazione, che arriva da fonti ignote, ma nella sua ostinazione e nella sua pazienza. "Scavare un pozzo con un ago"! è un bel modo di dire turco che descrive il lavoro dello scrittore». Può sembrare lieve soltanto per coloro che scrivono con eccessiva disinvoltura, come se non avessero padri letterari. È vero che oggi sono altre le fonti, enormemente espanse, non ristrette alle libresche. Sia in prosa, sia in poesia, è caduta quell'idea durata secoli secondo la quale sembrava che ci fossero piú cose dentro ai libri che fuori. Lo scrittore presupponeva o istituiva su quei testi la "competenza" del proprio lettore, costruiva il suo destinatario. Ciò è stato assolutamente vero e pacifico per tanti secoli. E non lo dico con un senso della "perdita", come se restassi attaccato all'idea che il processo di formazione di un testo debba obbligatoriamente prevedere l'assorbimento di temi e di modi del passato da assimilare e poi trasformare. Tanti terremoti e tante variazioni e distacchi dalla tradizione sono avvenuti, soprattutto nel secolo scorso. Comunque sia, la condizione di "leggibilità" del testo letterario si è basata per secoli su continuità e memoria: una memoria (dell'autore e del lettore) decisiva, che ha governato l' interpretazione, e senza quell'alludere, quel riferimento volontario dell'autore, la lettura di un testo restava incompleta, priva di risonanza. Poi, nel secolo scorso con maggiore rilievo, è avvenuto un cambiamento, e occorrerebbe spiegarlo a fondo, allargando l'indagine su uno spazio globale, non soltanto eurocentrico... uno spazio oggi enorme. Mi sono avviato perciò con titubanza a trattare del "mestiere di scrivere", costretto a parlare di pochi autori, soltanto di quelli che conosco. E mi sono mosso in modo rapsodico piú che sistematico. Non ho difatti tentato di sistemare "storicamente" alcunché, né scritto un ordinato "manuale" sulla composizione letteraria. Ho ceduto invece, piú liberamente, al piacere del riprendere riflessioni e memoria di mie personali letture. In fondo, di manuali di scrittura ce ne sono troppi e quasi tutti poco utili."

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"Perché scrivere? Ho già detto altrove ciò che pensavo sull'"altrui mestiere", a favore di chi non resta per la vita autore di un solo genere, ma decide a un certo punto di cimentarsi con qualche altra forma collaterale. A me piacerebbe, perché no, potermi cimentare in un'opera di fantasia: romanzo, raccolta di versi. Ma non ne sono mai stato capace, e so che me ne asterrò per l'avvenire. Mi sono sempre mosso con maggiore agio tra le storie di parole, se dietro ad esse si cela qualche vicenda storico-culturale. Ambito questo, però, dove non c'è spazio per l'irruzione dell'immaginario e dell'invenzione. Comunque, continuo a scrivere, anche se, come tanti, mi chiedo sempre di piú il perché. Finisce col diventare una specie di vizio. Con lo scrivere bisogna sempre prendere speciali precauzioni. È un male contagioso. Porsi davanti a una pagina bianca e cominciare a riempirla «è una faccenda molto strana», annotava Maria Corti nelle Pietre verbali. Ma «d'altronde ti pare che il mondo esista se tu ne scrivi». E tu stesso esisti, se scrivi: è la «consapevolezza trionfante e dolorosa di esistere soltanto nella propria scrittura». Citavo prima Maria Corti, alla quale, credo, doveva essere venuto in mente Pessoa quando diceva che si scrive per simulare la verità ed evitare cosí di essere nulla, opinione condivisa da tanti, da Pennac ad esempio, quando in Come un romanzo annota: «L'uomo costruisce case perché è vivo ma scrive libri perché si sa mortale». Credo che sia anche questione di solitudine, come lo è del resto in certi casi la lettura. Ancora Pennac osservava che l'uomo «vive in gruppo perché gregario, ma legge perché si sa solo. La lettura è per lui una compagnia che non prende il posto di nessun'altra, ma che nessun'altra potrebbe sostituire».

Scrivere pagine letterarie non è come comporre un manuale o altro prodotto strumentale. Non equivale a comporre un compendio di verità e d'istruzioni, un "utensile". Si entra in un ambito espressivo che va trattato con certi riguardi e distinguo, posto che la letteratura è diletto, confessione, indagine che gareggia con la filosofia, la storia, le scienze («essendo un romanziere, mi considero superiore al santo, allo scienziato, al filosofo e al poeta - che sono tutti grandi esperti di parti diverse dell'uomo vivente, ma che non colgono mai l'intero» diceva Lawrence), forma di conoscenza che apre nuove prospettive sul reale, finestra aperta sul mondo, ma anche finzione che cattura la realtà attraverso una rappresentazione discorsiva, è un io che racconta se stesso, narrazione di ricordi desideri e pensieri, evocazione o sogno di ciò che si sarebbe voluto fare o dire, di incubi e paure, turbamenti, fantasticazioni, un porre domande senza risposte. Spesso si scrive per confessare le proprie crisi intime, per cercare di risolverle (si pensi a Kafka). O ci si pone «al servizio della propria nevrosi, pronti ad assecondarla e a celebrarla»; si trae da una debolezza il proprio sfarzo stilistico, si trova nell'ossessione la fonte dell'ispirazione stessa: abbiamo a che fare in questi casi con scrittori che quando scrivono «finiscono di consegnarsi inermi agli artigli dei demoni che li signoreggiano», di qui stravolgimenti, l'eccitazione verbale, gli avvitamenti retorici, le torsioni espressive, l'ossessione che si fa forma. Lo annotava Michele Mari citando Céline, Kafka, Borges, Conrad, Canetti, Manganelli, Melville, Landolfi e il loro linguaggio "marcato" e in qualche caso inattuale (l'esatto rovescio di uno Stevenson, poniamo, che «è la voce, è lo spirito di affabulazione fatto persona e poi penna»); e citava naturalmente Gadda: «questo grande introverso ci rapisce e ci spiazza in continuazione perché ogni sua parola è il trionfo di un'istrionica estroversione».

Tutto meno che diletto è la letteratura. I grandi narratori (tra i nostri, penso a Manzoni o a Svevo) hanno posto in second'ordine la letteratura che cerca un diletto della fantasia: a loro interessava la narrativa come inchiesta conoscitiva o etica, basata sulla cognizione degli uomini e delle cose, lo scrivere come impegno totale e come esperienza necessaria per comprendere la vita, per «gettare luce sull'essere dell'uomo», per «fare del romanzo la suprema sintesi intellettuale».

Ma è lo scrivere per comprendere se stessi che resta negli autori di ogni tempo l'impulso principe. Pensiamo alle pagine di Petrarca, un profondo e protratto colloquio con la propria anima. Orhan Pamuk ha scritto che «essere scrittori significa prendere coscienza delle ferite segrete che portiamo dentro di noi, ferite cosí segrete che noi stessi ne siamo a malapena consapevoli»; ci tocca «esplorarle pazientemente, studiarle, illuminarle e fare di queste ferite e di questi dolori una parte della nostra scrittura e della nostra identità». Philip Roth afferma che la narrativa è una «complessa, camuffata lettera a se stesso». Può diventare un atto liberatorio, come era stato per Primo Levi (esplicita confessione sua) lo scrivere Se non ora quando?; e penso alla «gioia liberatrice del raccontare» (altra confessione) offertagli dalla Tregua dopo il ritorno a casa.

Il pubblico in questi casi non è piú il referente primo. Ho appena citato Svevo, scrittore che sembrava quasi metterlo da parte: per lui era l'autore «il primo destinatario delle sue pagine», voleva capirsi meglio, analizzare e scoprire se stesso. L'esercizio dello scrivere come arte in sé gli importava di meno. La sua prosa era completamente antiformalistica, priva di virtuosismi, di ogni elemento decorativo. Gli interessava lo scrivere come scavo negli angoli bui di sé e degli altri, le gelosie, gli affetti, le debolezze dell'uomo cosiddetto "normale". La sua scrittura non era attratta dalla parola che trascina, dall'onda melodica di una prosa suadente, perché in questi casi, a suo parere, la letteratura può ingannare («Ho avuto sempre una certa antipatia per la parola dolce ch'è tanto facile da vergare e che non dice niente»). La potenza espressiva di Svevo difatti non risiede nello scrivere bene, nello stile. Il bello scrivere gli pareva inautentico. In una pagina del Diario appuntava: «È un uomo che scrive troppo bene per essere sincero» (avrebbe forse sottoscritto la nota di Stendhal quando nel suo Diario, 14 febbraio 1841, appuntava: «Sono i poveri d'idee che hanno inventato lo stile»)."
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AntonioGallo | Sep 24, 2020 |
Questo saggio di Gian Luigi Beccaria è una raccolta di pensieri sparsi su vari temi legati alla lingua italiana, alla sua resistenza (Beccaria è ottimista) e alle mille cose che ci arrivano dalle tradizioni popolari. Soprattutto nella prima parte si trova un certo qual lirismo, un peana alla bellezza della nostra lingua forse un po' esagerato, oltre a una difesa appassionata della lingua "umanista" (e qui ho il sospetto che lui abbia una visione della lingua scientifica che si limiti alla manualistica...) Leggendolo, mi ha dato l'impressione di un quadro impressionista: il lettore deve metterci parecchio del suo, come del resto è giusto. L'italiano non è roba da museo, ma qualcosa che dovrebbe essere nostro.… (mehr)
 
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.mau. | Feb 22, 2018 |
La linguistica è una scienza complicata. Ci si perde facilmente, e chi come me non è certo un esperto del campo si confonde molto spesso. Ecco quindi l'utilità di questo dizionario, con un gruppo di studiosi capitanato da Gian Luigi Beccaria, che raccoglie non solo le voci di linguistica ma anche quelle di filologia, metrica, retorica, come indicato nel titolo. Lo stile è molto asciutto, appunto da dizionario; per fortuna che proprio come nei dizionari gli esempi spesso abbondano e permettono di intuire i concetti anche senza una competenza specifica (Sì, l'ho letto tutto, da cima a fondo: ci ho messo sei mesi a spizzichi e bocconi, ma l'ho letto). A mio parere la complessità delle singole voci è disuguale: quelle di linguistica teorica per esempio mi sono risultate più ostiche, ma il risultato complessivo permette di accettare tali differenze e farsi un'idea dei temi trattati anche per chi come me ne è abbastanza a digiuno. Un'ultima curiosità: l'origine di Beccaria si vede dai tanti esempi presenti in piemontese.… (mehr)
 
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.mau. | Nov 19, 2017 |
 
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Biblit | May 4, 2011 |

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