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Tutti i racconti

von Cesare Pavese

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Pavese va letto d'estate (in agosto).

Cara Mariarosa Masoero,
a che servono 300 e passa pagine di note se non mi traduci il piemontese? L’universita’ l’abbiamo gia’ fatta - inutilmente - e se Cesare ha scritto ‘miao’ invece di ‘ciao’, non mi cambia la vita e neppure la voglia di leggerlo.



FERIA D'AGOSTO (*****)

Di quelli piu' belli:
Fine d'Agosto
La giacchetta di cuoio
Primo amore
Il mare
Risveglio
La citta'
La vigna
Anni


Ma ormai io non potevo piu' perdonarle di essere una donna, una che trasforma il sapore remoto del vento in sapore di carne. (p. 10)

Quando c'era Ceresa non mancava mai da ridere: si stava in mutandine nell'acqua, si preparava il catrame, si vuotavano le barche, e alla stagione buona si faceva merenda col secchio dell'uva sul tavolo, sotto le piante. (p. 30)

Sono momenti questi che si possono chiamare di disponibilita' assoluta. S'intravede, dopo che uno li ha vissuti, che tutto il proprio passato visibile e percio' anche il presente e insomma tutta la vita, non conta per quello che si e' fatto voluto sofferto ottenuto, e che tanto varrebbe starsene fermi su un angolo come un pezzente e, borbottando qualcosa che i passanti non capiscano nemmeno, fissare a occhi chiusi questo stupore, quest'abisso. (p. 82)

Tutto si puo' fare al mattino, avendone voglia, - gli dissi. - Ma dove la trovi la donna che si accontenta di mangiare quattro ciliege guardando i tetti? (p. 105)

Adesso ero solo. Naturalmente non trovai nessun lavoro. Nelle torride giornate bighellonavo per le strade, specialmente al mattino; godendomi le bande d'ombra fresca sul marciapiede annaffiato. Spalancavo la finestra sui tetti ogni mattina, tendendo l'orecchio ai rumori vaghi che salivano fin lassu'. Nell'aria limpida i tetti scuri e rugosi mi parevano un'immagine della mia nuova vita: speranze labili sopra un ruvido fondo. In quella calma, in quell'attesa mi sentivo rinascere. (p. 106-7)

Cio' e' tanto vero che di qualunque individuo, anche il piu' colto e creatore, si puo' sostenere che i simboli non si radicano tanto nei suoi incontri libreschi o accademici, quanto nelle mitiche e quasi elementari scoperte d'infanzia, nei contatti umilissimi e inconsapevoli con le realta' quotidiane e domestiche che l'hanno accolto al principio: non l'alta poesia ma la fiaba, il litigio, la prghiera, non la grande pittura ma l'almanacco e la stampa, non la scienza ma la superstizione. (p. 135)

E non e' una caso che Proust per raggiungere il suo passato piu' geloso si sia servito della pura sensazione, che nella sua nudita' pare fatta apposta per accostarci al mondo larvale delle origini istintive. (p. 138)

Son tornato al torrente dove venivo quest'inverno, e come succede in quest'ore calde mi e' venuta l'idea di mettermi nudo. Non mi vedevano che gli alberi e gli uccelli. Il torrente e' incassato in uno spacco della campagna. Se si ha un corpo, tanto vale esporlo al cielo. Le radici che sporgono dalla parete, sono nude.
Mi bagnai nella pozza, dove disteso toccavo fondo. E' un'acqua tiepida, che sa di terra. Di tanto in tanto ci tornavo; cuocevo al sole tutto il tempo, buttato sull'erba, scorrendomi addosso le stille come sudore. Non sapevo piu' di carne ma d'acqua e di terra. Mi vedevo sulla testa tra le punte degli alberi la pozza nuda del cielo. Ci stetti fino a sera. (p. 144)
WALT WHITMAN

Dopo l'ultimo incontro sulla riva del fiume vagabondai nei prati come facevo da ragazzo. La giornata non voleva finire. Io sapevo che un giorno quelle ore le avrei ricordate come ricordo i pomeriggi abbandonati di tanti anni fa. Ero ridotto come un bambino, troppo ammaccato per sentir altro che il mio corpo, e le angosce mi camminavano davanti come guide. Le seguivo istupidito. (p. 151)

Ma non volle venire a cercarlo. Doveva essere caduto nei boschi, sapeva troppo di selvatico. Ora capivo perche' tante cose strane si raccontano nei boschi, perche' ci sono tante piante, tanti fiori mai veduti, e rumori di bestie che si nascondono nei rovi. Forse il lampo diventa una pietra, una lucertola, uno strato di fiorellini, e bisogna sentirlo all'odore. (p. 161)

TESTI GIOVANILI (***)

Di quelli piu’ belli:
Lotte di giovani
Brividi bui di sogni
Il poeta e il suo doppio
Il cattivo meccanico
Il pilota malato
Arcadia

A quello spettacolo mi sentii stringere il cuore. E su quell’immensa agonia della natura, mentre il vento freddo che spazzava quella vetta mi dava un brivido come di febbre, mi occorse il pensiero della morte. Volsi ancora una volta lo sguardo a tutto l’orizzonte e fermai un istante gli occhi sul crepuscolo che in quella luce smorta si spegneva lentamente. Poi, triste, m’incamminai al ritorno. (201)

La notte sprofondata la’, in alto dove, come a raffiche di vento freddo, rabbrividivano le stelle.
Il peso, serrato, del buio sui contorcimenti muti dell’anima.
Lontano, lontano, la gran citta’ che viveva della sua vita immensa, nello scagliarsi di tutte le velocita’ e nelle luci spasmodiche.
La folla degli uomini di cui ciascuna passione era un delirio soffocante e urlante e gli uomini e le passioni vivevano laggiu’, a migliaia. E le grandi citta’ pulsavano e sussultavano sulla terra, a migliaia. (232)

I crepuscoli arroventati d’inverno, quando tutto sul fiume e’ di nebbia, tranne i piccoli lumi alle vie e le moli titaniche di camini e di fabbriche si drizzano sul cielo di fiamma.
I torrenti di fumo che sgorgano in alto e si fondono alle nubi.
La sterilita’ livida dei pochi ciuffi d’erba sulle rive del fiume, coperte di carbone e di pietre e di rotaie d’acciaio.
Gli uomini perduti in quell’orizzonte, sotto il cielo pallido, come tra le rovine di un mondo. (253)

Difatti la citta’ non e’ citta’ se non di notte.
Di notte, scompaiono tutti i controsensi, le meschinita’ provinciali, il cielo libero sull’immensita’ delle case, i particolari cui la luce solare, implacabile, da’ un rilievo esagerato. Di notte, ogni provincialismo, ogni resto campagnolo, scompare nella tenebra e la grande citta’ non e’ piu’ che un misterioso seguito di masse buie e altissime, geometrizzate da occhi luminosi e spaccate in rettilinei dove s’allungano correnti di luci. Nelle piazze, dentro la nebbia leggera, che e’ come il respiro della citta’, s’incrociano costellazioni multicolori, limpidissime, urlanti di fulgore. E a terra, rasente gli asfalti, che paion grandi fiumi silenziosi, lucidissime, scivolano le automobili, masse buie anch’esse, tranne i due occhi sbarrati che si sprofondano come in un abisso.
Di notte, la citta’ presenta l’aspetto irreale di un fondo marino, tenebroso e annebbiato di piccole luci, che compaiono un tratto e poi guizzano via.
L’anima umana artificiosa, creatrice della metropoli, ritrova se stessa nella sua allucinazione, nella tenebra rotta soltanto di centri elettrici e di fragori meccanici, nell’immensa artificiosita’ della sua vita. Mentre il giorno e’ pur sempre il regno del sole, della natura oltreumana. (275)

CIAU MASINO (***)

Di quelli piu’ belli:
La zoppa
I cantastorie
Antenati

Com’a va, madama?
L’altra apri’ due occhi spaventata e con un tono piagnucoloso riconobbe Masin.
Eh, soma si’. (396)

Siamo nati per girovagare su quelle colline,
senza donne e le mani tenercele dietro alla schiena. (418)

ALTRI RACCONTI (1936-1941)(***)

Di quelli piu’ belli:
L’idolo
Il campo di grano.

Dalle porte esalava tanfo di fritto e io solevo sedermi a un’osteria, di fronte alla stazione deserta. Guardavo passsare il gregge i capre, che dav il latte al paese, e m’insonnolivo nella penombra, assaporando la solitudine. Mi tuffavo in un’amara commozione al pensiero che alle mie spalle, oltre le montagne, continuva a vivere il grande mondo e che un giorno l’avrei riattraversato. (Terra d’esilio, 451)

Non tanto di uscire anlavo, quanto che entrasse il mondo nel mio vuoto e lo colorasse, lo scaldasse con gesti e parole. Leggere non bastava, diceva giusto il mio compagno; occorreva che almeno, nel mondo, pensassero a me, me ne dessero i segni, e non tutto svanisse in quell’atroce, innaturale immobilita’. (L’intruso, 491)

Le migliaia di bolle diffondevano un pallore assurdo fra l’acqua e l’aria. Nelle lacrime di pioggia Bianca spazio’ lo sguardo alle rive, ogn’intorno, e ogni cosa svaniva in un profilo incerto. Era sola sul fiume. (La draga, 548-9)

Non sono fatto per le tempeste e per la lotta: se anche in certe mattine scendo tutto vibrante a percorrere le vie, e il mio passo somiglia una sfida, ripeto che null’altro chiedo alla vita se non che si lasci guardare.
Eppure anche quest’ultimo piacere mi lascia talvolta l’amarezza propria di un vizio. Non e’ da ieri che mi sono accorto come a vivere sia necessaria un’astuzia, prima che verso gli altri, verso di se’. (Suicidi, 609)

Risalivo la strada della collina e gli antichi scenari di verde e di muriccioli, via via che sorgevano alle svolte, mi parevano finti. Tanto tempo ne ero vissuto lontano ripensandoci appena in certi istanti svagati, che la loro attualita’ materiale mi faceva ora soltanto l’effetto di un simbolo del passato.
Ma non erano simboli la brezza della sera e l’odore di quella terra. Qui ritrovavo corporalmente l’atmosfera della mia gioventu’, perche’ queste cose non le avevo mai dimenticate, ma in lontane campagne o nei viali delle citta’, tante volte avevo fiutato l’aria riassaporando altri tempi. (Villa in collina, 636)


FALLIMENTI - FRAMMENTI (****)

E poi, se devo dirlo, nella mia monastica rinuncia era entrata una segreta compiacenza, una dolorosa abitudine del passato, che mi faceva preferire l’intimita’ di una vano ricordo ad ogni imprevista novita’. (693)

D’estate all’aria aperta il malumore e’ solamente languidezza, e la gran luce lo smentisce. (777)




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  NewLibrary78 | Jul 22, 2023 |
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