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Dove gli ebrei non ci sono: la storia triste e assurda del Birobidžan, la regione autonoma ebraica nella Russia di Stalin

von Masha Gessen

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Nel 1929 il governo sovietico individuò un'area scarsamente popolata nell'Estremo Oriente dell'ex-impero russo. Questo luogo desolato e insalubre al confine con la Cina, flagellato da piogge torrenziali in estate e temperature rigide in inverno, fu considerato adatto per ospitare un pionieristico insediamento ebraico: la Regione autonoma del Birobid?an. Il progetto fu caldeggiato da alcuni intellettuali che speravano di creare un rifugio per gli ebrei e una casa per la cultura yiddish. Nei primi anni '30, decine di migliaia di ebrei sovietici e circa un migliaio di ebrei stranieri risposero all'appello e si trasferirono nel Birobid?an, tra molte speranze e incalcolabili difficoltà. Dopo la seconda guerra mondiale, altri ebrei raggiunsero la Regione autonoma ebraica: molti avevano perso le loro famiglie nella Shoah e ora, impoveriti e stremati dalla guerra, non avevano altro posto dove andare. Masha Gessen, acuta analista della storia russa, ricostruisce le vicende di questo esperimento, a un tempo eroico e disperato, e dei suoi protagonisti, altrettanto eroici e disperati. "Dove gli ebrei non ci sono" è il suggestivo racconto di un sogno - ora lieto, ora angosciante - chiamato Birobid?an, un sogno andato in pezzi ai confini del mondo e i cui frammenti possono aiutarci a comprendere la storia degli ebrei nella Russia del Novecento, una storia inquieta che sogno non fu. (fonte: Retro di copertina)
  MemorialeSardoShoah | Oct 18, 2021 |
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E in questo modo sono rimasto seduto così a lungo alla porta di questa città, nella quale nessuno entra e dalla quale nessuno parte.
Tutto ciò che un tempo sapevo ho ora dimenticato da tempo, e in questa mia mente non rimane altro che un unico pensiero:
Tutti, tutti sono morti da allora, e io solo sono vivo, e non aspetto più nessuno.
E quando guardo in alto sopra di me ancora una volta e sento la potenza e la forza che dormono in me neppure sospiro più, ma semplicemente penso:
Sono il guardiano di una città morta.

David Bergelson
Nokh alemen (La fine di tutto)
Widmung
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ai miei genitori,
che hanno avuto il coraggio di emigrare
Erste Worte
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A dodici anni, seduta sul pavimento, stavo facendo quella che sembrava la conversazione più importante della mia vita con il mio migliore amico, che rimaneva per lo più in silenzio.
Zitate
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C’era l’opzione Israele che, per mancanza di qualsiasi informazione attendibile relativa a quel paese e a fronte dell’accanita propaganda antisionista sui giornali sovietici, era riservata a chi era abbastanza coraggioso da affrontare una totale incertezza nel nome della causa. Ritenevo me stessa una di queste persone, ma i miei genitori avevano altri progetti. C’erano i paesi del Nuovo Mondo – gli Stati Uniti, l’Australia e il Canada – che concedevano l’asilo agli ebrei sovietici con relativa facilità ed erano considerati un’opzione per chi non era tanto idealista quanto intraprendente. I miei genitori, due intellettuali estremamente timidi, poco più che trentenni, stavano provando a vestire questi panni. E poi c’era il Vecchio Mondo, che per la prossimità geografica e per lo splendore culturale era l’oggetto dei nostri sogni, ma era, come sempre, interdetto: i paesi dell’Europa occidentale non concedevano visti agli ebrei che fuggivano dalla Russia.
Soltanto due generazioni prima, in effetti anche una generazione prima, subito dopo la seconda guerra mondiale, questa conversazione avrebbe incluso un’ulteriore opzione, una possibilità ormai retrocessa a qualcosa posto tra la fantasia e lo scherzo. C’era stato un tempo in cui se ne era parlato con la stessa speranza mozzafiato con cui i miei amici ed io parlavamo ora di Israele o di Parigi; era sembrata ad alcuni come una logica soluzione alla questione ebraica, come gli Stati Uniti o il Canada. Quel luogo si chiamava Birobidžan* 1[pron. Birobigiàn]. Fondato negli anni ’30, fu, forse, la peggiore buona idea mai concepita. Era nata, come spesso idee simili, da un presupposto razionale. Era, come spesso idee simili, apparentemente semplice. Perché sognare uno Stato ebraico? Quella era la logica. Perché evocare utopie di luoghi inaccessibili, di lingue ripristinate, di ebrei che creano il loro esercito? Tutto ciò di cui gli ebrei avevano bisogno, secondo questo modo di pensare, era di essere lasciati in pace, con la loro lingua e la loro cultura, entro i confini della loro casa. Una casa dovrebbe essere familiare e ben protetta, meglio se protetta dalla forza e dall’autorità di uno Stato riconosciuto. L’Unione Sovietica aveva colto la logica dell’autonomismo – non avrei appreso quella parola ancora per diversi decenni – trasformandola in un rifugio e in un incubo.
Quando gli ebrei dovrebbero stare fermi e quando dovrebbero fuggire? Come sappiamo dove saremo al sicuro? La partenza è sempre indice di codardia? L’incapacità di partire può essere un tradimento della vita stessa? C’è soltanto una risposta giusta a una qualsiasi domanda in un qualunque momento, e come posso capire quando è arrivato il momento di conoscere la differenza?
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