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Narrare la storia. Nuovi principi di metodologia storica

von Jerzy Topolski

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recensione di d'Orsi, A., L'Indice 1998, n. 2

Non gode di grande fortuna la metodologia nella nostra cultura storica; pochi i corsi universitari, scarsissimi i titoli sul mercato editoriale, pochi persino i contributi su periodici. E un "laissez-faire metodologico" è stato qua e là denunciato da taluno studioso in merito alla concreta ricerca storica; ma senza esito degno di nota. La "communis opinio" fra gli storici è, a ben guardare, che se proprio si vuole parlare di metodo, ciascuno ha il suo, ed è null'altro che il modo specifico con cui egli si adopera al lavoro nel suo stesso farsi. Forse è anche per questa ragione che gli opinionisti dei grandi media diventano repentinamente "storici", benché, in fondo, essi non facciano che rendere la pariglia agli storici che diventano "opinion makers", in una gara emulativa ove ciascuno dei due fronti tenta lo sfondamento della trincea avversaria.
Abbastanza diversa appare la situazione in altri contesti linguistico-culturali, dove ricerca e riflessione teorico-metodologica sembrano procedere, se non sempre in sintonia, certo più vicine. Il polacco Topolski, già noto al pubblico italiano per importanti contributi storici e storiografici, conferma con questo libro - che è quasi un lavoro a quattro mani, con un traduttore-collaboratore italiano - la propria vocazione di metodologo.
In questo caso egli affronta un tema specifico come la narrazione, sviscerata analiticamente con quel gusto della costruzione "completa" di una teoria che caratterizza l'autore: dal livello informativo all'impiego delle figure retoriche nel discorso, dall'invenzione e dall'argomentazione in essa presente alle numerose vie dell'ideologia che vi si cela... Ma, dietro, affiorano le questioni più generali della teoria storiografica, a cominciare (o per finire?) dalla "vexata quaestio" della "verità".
Topolski, pur indossando i panni di colui che si limita a descrivere il "come", rinunciando a priori alla prescrittività normativa, in realtà porta per mano il lettore verso un orizzonte ben preciso, che è quello della via di mezzo fra le posizioni estreme. In effetti egli rifiuta da un canto il realismo ingenuamente fattualistico, secondo cui la verità esiste, è unica e lo storico deve semplicemente raggiungerla grazie ai documenti, dandone conto ai fruitori del proprio lavoro; e, d'altro canto, respinge la tesi di quanti, negando qualunque ruolo conoscitivo alla storia, ne parlano come di una pura forma del vasto universo letterario. Per Topolski, posto che il passato non esiste in sé e per sé, ma è sempre necessario un atto ri-creativo che ne costituisce la realtà attraverso il racconto, lo storico non può abbandonare la categoria stessa di realtà, e ciò non solo per ragioni epistemologiche - nota opportunamente l'autore - ma altresì "morali, etiche e sociali". Davanti alle tante forme di "revisionismo", in particolare alla sua versione estrema, il "negazionismo" relativo ai campi di sterminio nazisti, ci sembra questa una posizione appunto non solo epistemologicamente accettabile, ma altresì eticamente e politicamente "corretta". ( )
  storiadigitale | Feb 9, 2008 |
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